La riflessione sulle tematiche dell’appartenenza e del radicamento promossa dall’Associazione si muove anche attraverso i libri che Terre Native propone al proprio pubblico attraverso l’indagine di vari contesti in cui l’idea di territorialità risulta centrale.
Nuvole, uccelli e lacrime umane. Lettere su natura e rivoluzione – Rosa Luxemburg
Rivoluzionaria, intellettuale, filosofa, sono molte le sfaccettature con cui Rosa Luxemburg viene tradizionalmente raccontata, ma è una figura ulteriore a emergere dalla sua fitta corrispondenza con gli amici e i compagni di partito. Lontano dai congressi, dalle agitazioni e dalle proteste in piazza, Luxemburg si racconta accompagnata da una ridda di vespe, cinciallegre, fiori di campo, bufali e uccelli. Emblemi di fragilità e bellezza, di autonomia e sofferenza, capaci di muovere un moto di compassione e affetto, gli animali che popolano le sue corrispondenze restituiscono la riflessione di una delle più grandi pensatrici del secolo scorso e insieme un’esperienza calata nella vicenda umana, nella quotidianità del vivere, pure in carcere pure in tempo di guerra. Nuvole, uccelli e lacrime umane è una raccolta di lettere – alcune mai tradotte in italiano – che sanno regalare al lettore il ritratto di un’intellettuale capace di immedesimarsi con le sorti degli animali e delle piante che insieme a lei vivono i giorni di prigionia. Sentirsi a casa nel mondo, nella natura, con le sue storture e le sue bellezze, significa per Luxemburg saper vivere e conoscere la condizione dell’uomo, rapportandosi intimamente con essa. È in una reciprocità di sguardi, in un’intimità più profonda di quella provata verso i compagni di partito che Rosa Luxemburg incontra nella natura che la circonda un antidoto e al contempo un’alleata, cogliendo tutta l’ingenuità di un’umanità che si pretende fulcro e cento del mondo, incapace di notare le molte sfaccettature del reale naturale. È nella difficoltà del vivere naturale – una coccinella, una cinciallegra, un fiore colto nel cortile del carcere – che Rosa Luxemburg riesce a intravedere e meglio comprende l’altrettanto fragile condizione umana. Di sé raccontava: «Mi sento a casa solo nel mondo, dove ci sono nuvole e uccelli e lacrime umane».
Cura e traduzione di Caterina Zamboni Russia
Rosa Luxemburg, Nuvole, uccelli e lacrime umane. Lettere su natura e rivoluzione, NdaPress, Rimini, 2024.
Uppa. Cronache groenlandesi – Piergiorgio Casotti
Questo libro nasce da dieci anni trascorsi nella Groenlandia dell’est. È il racconto di una forma di disperazione corale e sociale, endemica, attraverso il quotidiano di Ole, Ulla, Kaale, Michael, Hilda, Gerda e di tanti altri amici e conoscenti. Non è un libro esotico, un canonico reportage di esplorazione del grande Nord, ma la ricomposizione di memorie e diari di viaggio scritti in prima persona, di riflessioni, interviste e analisi che cercano di ritrarre un quadro umano, storico e sociale il più possibile neutrale, privo di giudizi morali. In questi anni tante cose sono accadute: alcuni amici sono invecchiati, alcuni se ne sono andati, altri si sono suicidati. È un libro che parla di loro attraverso me, e un poco di me attraverso di loro; parla di freddo artico e calore dell’anima, di suicidi, abusi e dolore, di foche cacciate, cani, musica, tupilak e qivitoq. Della luce di un sole che non tramonta mai, di una natura soverchiante e gloriosa, di una libertà claustrofobica; di utopie impossibilitate a nascere, di redenzione e rinascita dentro una società fragile, sospesa o inghiottita nella transizione dalle regole collettive di un passato antichissimo a un futuro friabile, irrealizzato. Tra sorrisi e lealtà, birra e patatine, sgommate in auto su strade ghiacciate e tuffi in mare per non tornare mai più, questa è la storia mutevole di una speranza, che a volte assume la forma della sopravvivenza e, altre, quella della resa.
Piergiorgio casotti, Uppa. Cronache groenlandesi, Italo Svevo Edizioni, Roma, 2023.
La più piccola repubblica d’Europa. Paul Desjardins e le Décades di Pontigny – Caterina Zamboni Russia
La più piccola repubblica d’Europa
Caterina Zamboni Russia
Nell’abbazia borgognona di Pontigny, il filosofo Paul Desjardins fondava nel 1910 un importante sodalizio culturale, le Décades di Pontigny. Simposi filosofici che miravano alla costruzione di un microcosmo intellettuale di respiro europeo, le Décades promuovevano l’incontro seminariale tra alcuni dei più illustri intellettuali novecenteschi (da Gide a Valéry, da Buber a Brunschvicg, da Sartre a Halévy) proponendosi di divenire la sede di una forma virtuosa di dialogo interdisciplinare a favore di una rigenerazione morale, filosofica e spirituale dell’Europa. Erano le imponenti dimensioni dell’abbazia e la tranquillità della campagna borgognona ad aver ispirato a Paul Desjardins l’idea di questa nuova iniziativa culturale, una comunità di intellettuali che avrebbe vissuto in un collettivo, incontrandosi nei mesi estivi per dieci giorni di conversazioni seminariali. Le Décades avrebbero rappresentato il trionfo di una cultura viva, umanistica, portatrice di confronto e di libertà di pensiero grazie all’indagine e all’approfondimento di questioni politico-sociali, letterarie, filosofiche e religiose.
Fu l’incombere di una tragedia familiare, la morte di uno dei figli entro i domini dell’abbazia, a fornire il pretesto per l’avvio delle Décades, imponendosi con necessità. Fare dell’abbazia, ormai arresa a un lutto bisognoso di una redenzione genitoriale, un luogo di rinascita collettiva rappresentava l’ultima possibilità di rimanere stanziali, di tutelare quel luogo che la morte del figlio aveva ormai reso inospitale, mantenendo il valore di ciò che li circondava nella necessità di prendersene cura attraverso una forma di riparazione. Conservare un angolo di terra, saperlo proprio nonostante l’annullamento che da esso poteva conseguire: era in un ulteriore impegno verso il luogo che la famiglia Desjardins avrebbe trovato una fonte di radicamento, fermi nella loro disposizione alla tutela. In un conferimento di rilevanza di volta in volta rinnovato – di contro alla perdita che il luogo aveva imposto – la famiglia aveva saputo opporre un operare collettivo a un mancare privato, confermando il legame con l’abbazia in una scelta sempre riformulata, tentando di alleviare il dolore in uno spirito di coabitazione familiare.
Era l’influenza impalpabile del luogo a favorire lo spirito comunitario dell’organizzazione, a giustificare tanti e così pazienti sforzi per costruire qualcosa. Lontano dalla dispersione della città, grazie al silenzio del luogo, all’architettura romanica, a una semplicità nascosta alla fine di un piccolo viale in cui abbondanti alberi facevano una guardia d’onore: a Pontigny non si stava dando l’avvio a un semplice luogo di villeggiatura intellettuale, ma a un ritorno riflessivo alle origini della cultura francese ed europea.
Caterina Zamboni Russia, La più piccola repubblica d’Europa. Paul Desjardins e le Décades di Pontigny, Il Melangolo, Genova, 2023.
La più piccola repubblica d’Europa – Anteprima
L’utopia dell’abbazia di Pontingny. Francesco Memo – Recensione
La macchia mongolica – Massimo Zamboni, Caterina Zamboni Russia
La macchia mongolica
Massimo Zamboni, Caterina Zamboni Russia
I corvi sono i veri custodi del monastero di Shankh. È più facile ascoltarli che vederli, intanati tra le colonne, nei sottotetti. I loro gracchi compongono una orchestra serale, forse anche una preghiera. Timbrano di escrementi bianchi i loro possedimenti, facendoli risaltare sul marroncino fulvo delle colonne, degli steccati, delle porte. Quel fulvo è il colore della vittoria, ci istruisce Enkhe. Sulle tegole dei tetti è cresciuta l’erba, nessuno provvederà mai ad estirparla, una vacca entra a pascolare anche se i cancelli sono serrati, fuori dal recinto del tempio qualche centinaio di pecore non si muove per non disturbare l’effetto cartolina. Spero ci sia di insegnamento questa pace raggiunta proprio nell’ultima ora. La comprensione che tutto ciò che cercavamo non era contenuto in un muoversi chilometrico, ma nell’attendere, nell’ascoltare da fermi. Realizzo l’avidità un po’ dissennata, anche se culturalmente insopprimibile, del nostro accumulare visioni. Avremmo forse dovuto fare come la macchina fotografica di Piergiorgio, aspettare l’entrata dei soggetti nel nostro campo visivo. Fermarsi – lasciarsi viaggiare. So che restando qualche giorno in questo minuscolo monastero subirei una elevazione di grado, ma forse mi spaventa l’eventualità di alterare le coordinate che mi costituiscono. Una promozione che non spaventa Caterina, intenta a prendere appunti solitari. Chissà se questi luoghi – questo, in particolare – genereranno in noi gli stessi pensieri. La voce per trattarli sarà certamente differente. O convergente? Vorrei sbirciare nei suoi appunti, sono certo che troverei materia di apprendimento. Conosceremo immediatamente alcuni di quei suoi pensieri questa sera stessa, quando ci comunicherà che vorrebbe ritornare qua il prossimo anno. Da sola. Chiedendo magari ospitalità in cambio di piccoli lavori di restauro alle strutture del tempio, che ai nostri occhi organizzati appaiono da pitturate, inchiodare, ricostituire. Meglio ancora, suggerisce, potrebbe dare qualche lezione di inglese. Mi colpisce questa sua voglia di permanenza, così lontana e superiore alle mie impazienze, così capace di aggiungere altri due punti cardinali – la scesa e la salita – ai quattro classici punti di superficie. Forse lo scardinamento causato dal viaggio ha avuto giusto questo fine: liofilizzare le profondità acquisite per un utilizzo non appena se ne presenti l’occasione. Potessi dare un corpo alle mie ispirazioni starei sdraiato sulla collina per ore, camminerei fino agli stupa bianchi che intuisco appena oltre il limite delle mie capacità visive. La mattina presto salirei la scala e la torretta guardando oltre il recinto l’uscita delle greggi, mentre le rare auto microscopiche in lontananza dicono che altro c’è, ma non dove e come. Senza prepotenza. Lascerei le nuvole formarsi come pare a loro, senza attribuire nomi o somiglianze, semplicemente guardandole mutare. Mi sveglierei tra i battibecchi dei corvi in questa stanza che non ha tende oscuranti, dove il sole entra senza bussare e illumina l’intera parete di ferro nero sgocciolata di bianco, stufa irradiante che sembra un dipinto di Rothko.
Il nostro viaggio termina qua, poco prima di sera, seduti sulla collina sopra Shankh. Noi tre assieme. Uomo. Donna. Figlia. Stesi ad ascoltare con i polmoni il profumo degli spazi che è il profumo di quell’erba della famiglia delle Artemisie che gli anglosassoni chiamano wormwood, i mongoli tsarvan ed Enkhe, unica in tutta l’Asia continentale, sharilg. Termina il viaggio lì dove era cominciato venti anni fa, in mezzo a quel respiro che avvolse Ossendowski e von Ungern-Sternberg e Polo e Micheli e mille altri viaggiatori o avventurieri e ancora accoglie e ispira tutti coloro che desiderano questo paese intimo e inaccessibile.
Massimo Zamboni, Caterina Zamboni Russia, La macchia mongolica, Baldini+Castoldi, Milano, 2020.
La macchia mongolica è anche un film-documentario diretto da Piergiorgio Casotti e una colonna sonora composta da Massimo Zamboni e pubblicata da Universal Music su CD/LP